Cop15: Pink, Black, Green for Climate Justice
da MilanoX.eu
Copenhagen. Cop15. E’ stata la mia ultima volta da attivista noglobal. L’abbiamo preparata per mesi la protesta, a Milano, a Liegi, a Copenhagen. Lascio per età sopraggiunta il campo di battaglia del nuovo movimento globale, che si è manifestato con forza nella capitale danese nella più grande conferenza climatica (e nel più grande flop della gouvernementalité ambientalista) di sempre. Dalle retrovie, la mia mente e la mia tastiera saranno sempre al servizio del movimento di giustizia climatica, l’unica novità radiosa in uno scenario macropolitico sempre più fosco e deludente. Il neoliberismo è morto, ma il nuovo corso non riesce a nascere e le vecchie élite continuano a comandare, stolte e corrotte più che mai. La finanza mondiale e il G8 aumentato a G20 continuano a dettar legge, malgrado la Grande Recessione che hanno recato al mondo e la crisi ecologica che non riescono ad affrontare. Se l’America di Obama delude le speranze di pacifisti ed ecologisti, l’Europa di oggi è un incubo bushista che non vuole saperne di terminare: stato di polizia per i giovani che protestano, violenta intolleranza per chi è musulmano o semplicemente è fuori dall’identikit europeo desiderato di bianco, cristiano, pensionato. La guerra di civiltà impazza come non mai in Europa. Ne abbiamo avuto riprova in Danimarca, dove un governo di destra già contraddistintosi per islamofobia e repressione del dissenso giovanile, ha messo in atto una guerra preventiva contro il movimento, con più di 2000 arresti e un assedio continuo ai luoghi e agli eventi dell’attivismo. La libertà d’espressione del dissenso è a rischio nella Unione Europea: il portavoce di Climate Justice Action (CJA), il cartello postcapitalista di azione climatica prima, durante e dopo il Cop15, è stato arrestato il 15 dicembre al termine della sua conferenza stampa. Du jamais vu, come dicono i sorelli valloni. Agenti in borghese hanno prelevato Tadzio Mueller dopo che aveva finito di descrivere ai giornalisti la grande azione di disobbedienza civile in programma per il 16 dicembre al Bella Center, la sede del cop15. Robe da europa est prima della caduta del Muro: il dissidente che osa parlare in pubblico e per questo viene sequestrato dal potere.
La notte del 14 dicembre, la polizia ha invaso Christiania, dove CJA stava tenendo la sua kermesse con Naomi Klein, Michael Hardt, per finire con un apogeo di Tadzio, un intellettuale, un attivista, un performer con carisma da vendere. Probabilmente quello è stato l’acme biopolitico delle giornate di Cop-enhagen. Il party stava per iniziare, ce la spassavamo con danesi, svedesi, finlandesi, quando la polizia preceduta da una nube tossica di lacrimogeni ha fatto irruzione con i cani nella città libera difesa solo da una barricata in fiamme e qualche molotov, facendo un altro grande rastrellamento di attivisti (centinaia di bustine di fumo buttate a terra), dopo i 1000 arresti in occasione della manifestazione per il clima del 12, in cui la polizia aveva scientemente spezzato e circondato la coda del corteo, deportando centinaia di attivisti verso quella che sarebbe diventata la famigerata “Klimaprison”, gabbioni medievali in cui rinchiudere coloro che la polizia danese stabiliva preventivamente essere disposti all’azione violenta. Precog policing, roba distopica da Minority Report di Philip Dick: ti arresto perché potresti fare un reato in futuro.
Il 12 dicembre è stato il più grande corteo ecologista mai visto sulla Terra. Mentre Moratti e Formigoni venivano contestati in Piazza Fontana, centomila persone hanno manifestato a Copenhagen per porre fine al capitalismo fossile e tagliare radicalmente le emissioni di gas serra. Su questo eravamo tutti d’accordo. Ma era profonda la divergenza fra la maggioranza della manifestazione, quella che recava i cartelli di Greenpeace (There is No Planet B), Friends of the Earth (Act for Climate Justice), WWF e delle altre grandi ONG globali e univa associazioni e partiti di sinistra, e la sua coda di 10.000 persone che esprimeva la richiesta di cambiamento sistemico e chiamava all’azione diretta sulle questioni climatiche, concentrandosi sulla produzione piuttosto che sul consumo e optando per l’organizzazione grassroots rispetto alla pressione sui leader e le organizzazioni internazionali, portata avanti dalla maggioranza della manifestazione. Diciamo subito che CJA ha sottovalutato l’importanza del 12 (“sarà una grande marcia, that’s all") e gli attivisti si sono presentati in maniera troppo sparsa al concentramento di fronte al parlamento, che era un maelstrom di gente dappaura di cui ricordo un pupazzo di neve gigante che non sorrideva manco per il cazzo, perché il riscaldamento globale ne avrebbe decretato presto la fine. Io per esempio mi sono perso e ho fatto la prima parte del corteo con Paolo Gerbaudo, il giornalista/attivista del Manifesto a cui il movimento di giustizia climatica italiano deve molto. Solo a Christiania siamo riusciti a beccare la coda del corteo. Subito dopo il casino e la manovra poliziesca che ha tagliato in due il nostro spezzone alla ricerca del pugno di black che non aveva fatto neanche un gran cinema. Si sono ritrovati intrappolati gli anarco-sindacalisti del SUF, gente di Hare Krishna e di Via Campesina. La Pink Samba angloitalobelga, foltissima, è rimasta a dar solidarietà ai circondati poi fatti a sedere “a treno” per ore col culo per terra al gelo e le mani legate dietro la schiena. Ma dal camion di CJA viene lanciato il messaggio che la gente era stata liberata e che possiamo continuare la manifestazione. Solo arrivati a destinazione il contr’ordine: sono ancora circondati, dobbiamo tornare indietro ognuno per sé. Nel casino becco David, il ragazzo di CJA e Klimax che era venuto a propagandare la settimana d’azione per il Cop15 in Italia. L’hanno appena liberato, dopo averlo arrestato preventivamente la mattina, sbattendolo contro il muro mentre andava in bicicletta. Gli hanno trovato bombolette di vernice e ciò è bastato come scusa metterlo fuori partita. Sarà una triste ricorrenza nei giorni a venire. Gli esponenti CJA saranno bersagliati senza pietà, per decapitare il movimento, renderlo incapace di reagire. Torniamo sul ponte di Christiania in tempo per vedere gli attivisti deportati su grandi bus. Sono scene da dittatura e neanche dosi da cavallo di hashish e ganja a Xiania riescono a scacciare la para. L’unica buona notizia è che il Climate Bus milanese, la cinquantina di intrepide attiviste/i organizzati da Torchiera e altri centri sociali, è per ora ancora tutto libero. Il giorno dopo, l’azione Hit the Production al porto container, si annuncia come un suicidio. Facciamo girar voce di evitare di andarci per non farsi arrestare, anche perché CJA non sembra avere la capacità logistica di gestirla.
Copenhagen vuole essere in quella settimana la vetrina del capitalismo verde emergente. Il centro è uno smorgasbord di futuribilità e greenwashing. Lo vediamo la prima notte, sotto l’enorme sfera verde della Siemens e accanto al palco di Hopenhagen, il tributo alla società civile dell’ONU, si mangia, si beve, si balla fra gli stand delle grandi aziende. C’è perfino un sound system montato su Christiania bikes con bandiera pirata al vento. Mette new wave 80s e si balla che è un piacere. Poco distante, c’è la prima del film degli Yes Men, poco distante. Al termine, il ciclosound pirata condurrà gli spettatori in una street improvvisata verso la Stubniz nave occupata e autogestita ancorata in rada. Così come l’Arctic Sunrise di Greenpeace, era ormeggiata anche a Rostock. Il mondo noglobal è una comunità transnazionale che si ricrea nelle grandi occasioni di protesta.
Rivedo Nikolaj di Copenhagen, Marc ed Eric di Liegi, il Duka e Manolo di Roma, Paolo e Gianluca di Torino, Michael di Belfast, Leo e Kolya di Graz, Sara di Bruxelles, Ben di Berlino, Keir di Leeds, John e Isa di Londra. John Jordan è fra i fautori del Bike Bloc che è accampato alla Candy Factory, mentre il grosso degli attivisti (2500) sono confinati a Ragnishildgade, un grosso complesso a Oesterbro, riscaldato con strutture sanitarie clamorosamente inefficienti, più volte soggetto a perquisa prima e dopo la manif del 12. La temperatura nei primi giorni resta sopra lo zero anche di notte, come segnala il termometro al neon di fronte alla stazione (parte da -20). Ma poi ogni giornata che passa perderemo qualche grado, cosicché per la grande azione del 16, Reclaim Power: Push for Climate Justice, il clima sarà decisamente polare.
Il 13 ci sono ancora molti arresti, ma il segnale che si può svoltare viene dato dal corteo improvvisato in centro da Pink Samba, Clown e Via Campesina, che fa il suo ingresso trionfale alla sede del Klimaforum, il cui programma di conferenze, film, workshop, concerti è il sogno bagnato di ogni ecologista che si rispetti. Sì, è il solito talk shop, la fiera della chiacchiera come di solito sono i social forum, ma è più vivace perché sindacalisti appesantiti e sessantottardi riciclati sono in forte minoranza. Qui la tonalità è green, mica red, e i partecipanti sono per lo più giovani come quelli di CJA, ma si respira un’aria alternativa e cosmopolita decisamente più rassicurante per il potere: generazione Erasmus, tanto per intenderci. Critici ma non sognatori dell’impossibile come noi, teppa anticapitalista e postcapitalista che al di fuori di Noerrebro e Christiania si sente un po’ pesce fuor d’acqua. Da Milano mi chiama Leonard in arrivo per dirmi che il corsera ha citato A in EU e pubblicato i 4 ventagli pink, black, red, green. Allora Copenhagen è davvero un botto, se i quotidiani italiani rivalutano i noglobal. La composizione della protesta è soprattutto italiana (milanesi, torinesi, romani, veneti, bolognesi), inglese, belga. I danesi sono meno di quanti dovrebbero. Ci sono americani, tedeschi, francesi, giapponesi (anche i Freeters della mayday!), ma tedeschi (dall’inizio) e scandinavi (dopo gli arresti di massa del 12) sono decisamente sottorappresentati. Si paga la spaccatura fra CJA e la sua costola anarcoautonoma, Never Trust a Cop (che qualcuno con malizia ha ribattezzato Never Never Trust a Cop) che alla vigilia della protesta ha rotto il patto che imponeva solo azioni nonviolente il 12 e non si è neppure attenuto all’annuncio che avrebbe fatto casino in centro mentre la manif lasciava la città. Non lo dico a cuor leggero, ma secondo me Copenhagen ha sancito una sconfitta storica del black bloc inteso come tattica politica. A parte il 12, in cui ci siamo beccati arresti a catena a fronte di danni poco più che simbolici, il 14, quando la polizia è stata attirata a Christiania dopo che un cellulare è stato dato in fiamme, a me non è andato giù. Odio la pula danese quanto quella italiana, però non capisco davvero la necessità di scatenare un riot alla vigilia dell’appuntamento che doveva cementare le forze per il 16. E di notti per fare casino ce n’erano. C’era forse una critica implicita a CJA, perché è fatta prevalentemente di studenti universitari e trentenni precari convertiti all’ecologismo radicale, mentre i black sono più giovani e incazzati e vedono la questione del clima come una dei tanti motivi per odiare il capitalismo? E’ interessante e rivelatore lo slogan It’s Social War, Not Climate Chaos di molti gruppi autonomen a Copenhagen, perché scomunica in partenza molto ambientalismo della società civile che, come in Gran Bretagna si riunisce sotto il cartello di "Stop Climate Chaos" che ha dato vita a The Wave, la grande manifestazione promossa da 350.org verso Westminster alla vigilia del cop15, che si è conclusa con l’occupazione di Trafalgar Square da parte del climate camp. Comunque sia quel party mancato e arrestato è pesato, eccome sul successo di Push for Climate Justice. Non solo ci ha sottratto attivisti per ore (di solito la gente veniva tenuta 6 o 12 ore e poi rimessa in circolo), ma ha impedito che diventassimo un corpo unico. E infatti quando siamo arrivati al Bella Center il 16 non abbiamo saputo spingere tutti insieme per passare il cancello (ce la potevamo fare, se la testa della manifestazione avesse impattato subito lo smilzo cordone poliziesco, invece di fermarsi a lato in attesa di non so cosa). A Copenhagen, il pink di sambe e clown, il black dei noborder e il verde di Via Campesina sono le tre forze che hanno alimentato le manifestazioni del 14 (noborder & climate refugees), del 15 (resistance is ripe) e del 16 (act for climate justice at cop15), su cui mi concentro prima di chiudere con una valutazione politica
finale.
Dopo i disastri del 12 e del 13, il 14 per la manifestazione noborder si cambia registro, soprattutto su spinta degli italiani, con una nuova tattica di piazza. Cordoni black ai lati e in testa a impedire infiltrazioni poliziesche e a proteggere le sambe, il nostro cavallo di Troia, e Via Campesina, il nostro proletariato globale, coi clown a svolgere azioni di disturbo ai lati o nei pressi (posti di blocco alle ambasciate inglese e francese, coi pagliacci che chiedevano i documenti ai funzionari diplomatici). Partiamo da Israelplads, la piazza all’ingresso di Noerrebro da dove partì la mayday parade nel 2005. Siamo 2000, pink e black in gran parte, dietro uno striscione pink enorme in tutte le lingue d’europa (arabo e cinese inclusi, quindi) che dice: Refugees, Migrants Welcome: Shut Down Fortress Europe). Ad un tratto appare il volto sfigurato di Mr B sulla media wall in cima a un palazzo di Noerreport. E’ un boato. Parte il coro: Berlusconi non ride più! La manif deve chiudersi di fronte al ministero della difesa. Passiamo di fronte all’Europahus e parte il grido “brick by brick, wall by wall, make this Fortress Europe fall!). Ci sono le infermiere anarchiche dell’ABC (Anarchist Black Cross). Lo shopping natalizio è turbato da grida rauche. Quando arriviamo all’obiettivo è un imbuto di migliaia di sbirri con camion idranti ed elicotteri. Ma in quella che sembrava una trappola, l’incredibile avviene. Attivisti italiani poco più che teens con azione repentina riescono a togliere gli ormeggi all’enorme pallone arancione offre una rappresentazione tangibile di una tonnellata di anidride carbonica. I bastardi della Politi cercano di correre ai ripari, ma ormai la palla di CO2 rotola libera sulle teste dei pulotti fino al parlamento. Euforia totale: Creative Attitude Never Bores!
La sera a Christiania tutti sono carichissimi. Naomi e Tadzio portano l’entusiasmo alle stelle nel tendone da circo allestito all’ingresso di Christiania. Poi il rastrellamento poliziesco. Noi riusciamo a scappare dal retro e poi nel bosco fino alla nostra casa, collocata provvidenzialmente a qualche chilometro dietro Xiania, in una fattoria cadente, ma con wi-fi, vicino all’inceneritore. Molti milanesi cadono in trappola. Luca Tornatore, ricercatore di Trieste, viene arrestato. E’ ancora dentro. Il giorno dopo partecipo alla manif Resistance is Fertile, giornata di azione sull’agricoltura, che ha i volantini di Titom (un belga) dalla grafica in assoluto la più figa. E sì che nei giorni di Copenhagen durante il cop15, flyer e pubblicazioni gratuite sono disponibili in centinaia di tipi – dal corporate all’anarchosquatter, dall’unocrazia agli m-l per l’atmosfera, da greenpeace ai vegani buddisti. Lo striscione (portato fra gli altri da una ragazza che ha scarpe nere con la zeppe una pink e una green ai piedi) reca un maialino siringato e un pollo pasticcato a forza. C’è Michael di PGA e CJA, che in quei giorni è attivo letteralmente dappertutto. Molti quelle/i di CIRCA, la clown army. Dal camion alcuni cantano (stonati) sulle note di the wall: “Monsanto, leave the Earth alone!” – “We don’t want just one cake. We want the whole fucking bakery!” – “Act for Climate Justice: Change the Food System” – e in italiano: "E’ ora, è ora la terra a chi lavora".
Il 16 dicembre siamo incazzati e traumatizzati per l’arresto di Tadzio Mueller e l’irruzione intimidatoria nel Candy Factory del bike bloc, fino ad allora risparmiato dall’isteria poliziesca. L’assemblea della sera prima a Ragnhildsgade, dove stanno anche milanesi e torinesi, è stata partecipatissima. Lisa, anarchica americana, è una trascinatrice, ma non è abbastanza pragmatica ai nostri occhi. Si rimanda sempre a gruppi di affinità e altre assemblee tecniche.
Ci si occupa troppo del metodo, ma non della sostanza, come già nelle sere precedenti. Ma adesso mancano poche ore, quand’è che si decide la tattica di piazza!? In generale si vede che Copenhagen è fin troppo una Seattle 2.0: le tecniche di decisione per consenso e azione per affinità sembrano pericolosamente ripetute ritualmente e svuotate di senso. Sembra quasi che la voglia di conservare i tratti e i riti noglobal prenda la precedenza sull’efficacia dell’azione e lo scopo di giustizia climatica. Ci si concentra sulla purezza dei mezzi, invece che sul miglior raggiungimento dei fini. Dopotutto si tratta di vedere come far sì che l’azione di domani abbia successo nella disruption dentro e fuori del Cop15. Si prevede l’attacco al perimetro del Bella Center da tre lati. Il blue bloc, il grosso di CJA, punterà dritto al cancello principale del Cop15 collocato a nordest. Aprirà Via Campesina e Focus on Global South, dietro anarcoautonomi europei e Pink Samba Band cordonata dai lati con mille striscioni, quindi il camion CJA, Climate Caravan e tutti gli altri a seguire. Il bike bloc attaccherà l’ingresso di nordovest, mentre il green (black) bloc attaccherà da sudovest la recinzione penetrando con azioni di defencing su suolo ONU. Intanto i delegati delle ONG a noi vicine usciranno dalla conferenza e cercheranno di ricongiungersi con noi a metà strada per tenere una grande assemblea di giustizia climatica dei popoli. Noi dell’euromayday che intendiamo sfilare dietro lo striscione Precarious United for Climate Action invitiamo tutte/i a unirsi al blue bloc stando in prossimità della samba, anche per evitare gli arresti. I black inglesi sono d’accordo con noi e dicono che non si ripeteranno le stronzate degli altri giorni. Il giorno dopo tutto il green bloc verrà arrestato e anche molti del Bike Bloc, fra cui due del Climate Bus che riescono a entrare nel campo da golf e far impazzire gli sbirri.
Alle 8 del 16 sottozero, siamo in 4-5000. Fa freddo ma si sente che siamo determinati. Una bandiera danese con un sol levante neroverde che racchiude una A (anarchia e/o autonomia) dà la carica. C’è anche Climate Justice Bologna! Proteggiamo i fianchi col nostro cordone vallone disciplinato. Becco Andy degli Yes Men (ha impersonato la delegazione canadese questa volta;) Subito dopo sfilano fra noi e la polizia, in tenuta color avorio le gran borghesi dei Lobbyists for profitable climate solutions, che consigliano ai bangladeshi di comprarsi stivali mentre brindano a champagne e altri slogan volutamente outrageous. Arrivati a destinazione del Cop15, molti di noi spingono abbestia (Pink Guru andrà in prima linea sulla TV danese, che apre con tre servizi dedicati alle proteste del 16) e si beccano pepper spray negli occhi (i rivoli di maalox agli occhi, unico antidoto al gas pepe, segnalano coloro che han combattuto), prima della carica che ci confina nella strada accanto alla cancellata protetta da un fossato, che gli attivisti del climate camp cercano di varcare con materassini, facendosi mordere dai cani e poi arrestare. Ma Via Campesina non si perde d’animo. Stende un tappetone da circo e dà il via alla tanto attesa Assemblea Globale per la Giustizia Climatica, sotto l’occhio interessato delle televisioni del mondo. Qualcuno appone fra gli alberi lo striscione più veritiero di tutta la fuffa che Yvo de Boer, Obama o Repubblica ci hanno raccontato sul vertice: “COP15: BUSINESS AS U$UAL”. Un altro recava insegne gigantesche autostradali: una puntava verso "Democracy”; l’altra in direzione opposta verso “Copenhagen”.
Queste le parole di Tadzio, del collettivo editoriale turbulence, oltre che portavoce di CJA, per fare un bilancio delle giornate di Copenhagen:
“In Copenhagen, we witnessed one abject failure, and one resounding success. The obvious failure is that of the COP15: not only did the summit not deliver the drastic and just emissions reductions that are necessary, it in fact failed to deliver anything at all. The success is that of the global climate justice movement, which organized spectacular, large and inspiring actions, where activists from all over the world came together and created a new common ground on which to continue the fight for global justice. Finally, the failure of the COP highlights the importance of social movement, pressure from below, and civil disobedience in the face of the climate crisis. The Danish government’s appallingly disproportionate reaction, the political policing used to jail some 1800 activists for nothing at all, targeting of media spokespeople; using tear gas, pepper spray, mass cages, baton charges and massive preemptive arrests; sets a precedent dangerous not only for Denmark, but for the future of Europe and the world.”
Tadzio ha avuto ragione a prevedere nelle sue 20 tesi che capitalismo verde sarebbe stato più repressivo di quello neoliberista. Ma riguardo a CJA, concordo col Duka: abbiamo sì riportato un grande successo politico – anche se minoranza nell’arcipelago ambientalista, ci siamo dimostrati l’unica opposizione credibile al Cop15; siamo stati gli unici ad aver preannunciato che sarebbe stato un fallimento, persino secondo i parametri del capitalismo verde. Con copenhagen un nuovo movimento globale è nato. Sarà il principale antagonista del capitalismo verde. E lo spettacolo senza precedenti dei delegati del cop15 presi a bastonate oppure bloccati nel parcheggio perché non raggiungessero al cancello i climattivisti ha portato alla condanna quasi unanime dell’opinione pubblica mondiale e alle dimissioni della responsabile danese del summit. D’altro canto, la nostra tattica di piazza si è rivelata assai deficitaria: sei assemblee internazionali per
organizzare un’azione sono state uno spreco enorme di energie che non si è riuscito a focalizzare sull’obiettivo da portare a casa: infrangere quella maledetta barriera che ricchi e potenti della terra hanno posto fra sé e il mondo che assiste al collasso della biosfera.
E al momento decisivo, solo Via Campesina, fra i movimenti di giustizia ambientale del Sud del mondo, si è unita alla massa di climattivisti che, pur meticci e dissenzienti quanto si vuole, erano
sostanzialmente giovani europei e nordamericani, malgrado il paziente lavoro di tessitura politica con le ONG alternative di Climate Justice Now!
A Copenhagen, ci sono state tutte le spezie delle grandi proteste noglobal: la grande manifestazione, la comunità postnazionale di attivisti nutriti veganamente, gli arresti in quantità, le tante azioni creative, il riot notturno, la grande azione, le ripercussioni mediatiche. Mentirei se dicessi che lascio al culmine la sequela di controvertici. Strasburgo, anche se politicamente più sterile, aveva una logistica migliore e una strategia di piazza più coerente. Il G20 di Londra è stato più travolgente. Ma a Copenhagen è sorto un movimento nuovo, il climate justice movement, che riuscirà a espandersi nella misura in cui avrà la forza di abbandonare i riti e gli slogan ormai ritriti ereditati da Seattle e Genova, e soprattutto di porsi un’orizzonte postcapitalista di giustizia climatica realizzabile, invece che uno astrattamente anticapitalista, che, anarchico o trotzkista non importa, ha fatto il suo tempo. E’ giunta l’ora di fare l’altro mondo, invece di limitarsi a dire con parole e fatti che questo fa schifo. In Europa, il movimento postcapitalista ha bisogno di organizzazione, o meglio due: un sindacato biosociale per precarie e precari, un movimento politico queer e libertario per la gioventù multietnica delle città.
Time for Climate Justice Europe?